Aron Reyr Sverrisson è nato e cresciuto a Reykjavik, in Islanda: qui ha studiato all’Accademia di Belle Arti per poi approfondire gli studi a Roma.
Sverrisson è un pittore di ricordi: in questi trova il nutrimento per la sua arte, con cui racconta i luoghi dei suoi viaggi (soprattutto immaginari) e della sua infanzia, tramite pennellate piene di affetto e nostalgia.
Ampi spazi, ritratti con fedeltà e precisione, sono orchestrati da una geometria severa e un uso sapiente dei colori: scenografie studiate con meticolosità, in cui la componente vivente è percepibile, ma non appare mai. L’artista prepara macchine del tempo dove noi, assieme a lui, possiamo rivivere i ricordi. Nelle sue tele dà spazio al vuoto, quello che avvolge l’intimità più cara.
Nelle sue opere racconta la tensione che c’è nell’assenza, quando il vuoto riempie di sé tutto lo spazio. La pittura ha pulizia formale e precisione minuziosa, con i toni scuri dell’arte nordica; descrive scorci di lande deserte e sconfinate o interni abbandonati, su cui incombono pochi oggetti, relitti che sembrano familiari eppure misteriosi.
La solitudine non è
angosciante ed il vuoto non è spettrale: è la solitudine che l’artista ha
imparato a conoscere e ad amare fin da bambino, a contatto con la natura
immensa e selvaggia della sua terra, o con l’immaginazione sollecitata dalle
fotografie, dal cinema e dalla musica dall’affascinante mondo degli anni ’50 in America, dove i nonni hanno
vissuto.
I ritratti d’ambiente funzionano come palcoscenici, dove avviene un dialogo tra gli oggetti, protagonisti del loro silenzio.“Quando dipingo mi sento come un regista che allestisce il set per le riprese e il quadro è una sorta di palcoscenico per la mia coscienza”, spiega Sverrisson. “Il mio intento è che lo spettatore lo possa utilizzare a sua volta come teatro per i propri ricordi e sentimenti”.Con una pittura misurata ed essenziale, che evita le descrizioni didascaliche, l’artista riesce a trasmettere a chi guarda il quadro la sensazione di partecipare all’evento che descrive. Le impalcature tra gli edifici sembrano alludere a un ponte, ancorché precario, tra due esistenze. Sono scenari quotidiani e inaspettati, familiari e inquietanti, sempre affascinanti, in cui l’uomo, invisibile, è come sottinteso. Ne avvertiamo la presenza e ne immaginiamo l’esistenza, perché sentiamo l’eco dei suoi passi, vediamo le tracce del suo passaggio, gli oggetti che ha usato. La stanza o il paesaggio non sono che il pretesto e la metafora per imbrigliare e trattenere qualcosa di inafferrabile: la coscienza, i pensieri, le emozioni. Compongono una sorta di autobiografia per immagini, ricreando l’atmosfera di precisi momenti e luoghi della vita dell’artista, in cui lo spettatore è invitato a entrare e a curiosare, a confrontarli con il proprio vissuto o a immaginare storie e personaggi. La luce, che cade dall’alto, come a teatro, o filtra da una finestra, esercita la sua azione morbida sulla povertà degli ambienti, rivestendoli di una grazia inaspettata.
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