Andare con il flusso di Robert Devriendt
La cifra caratteristica delle opere di Devriendt è la rappresentazione di istanti di vita fuori dall’ordinario su tele di piccole dimensioni, che costituiscono i frammenti di una storia di cui in verità si sa ben poco. L’artista, pur consapevole di fornire pochi elementi perché si possa comprendere, chiama lo spettatore a partecipare al montaggio della narrazione, perché è certo che l’opera d’arte trova senso e compimento solo nel momento in cui ‘appartiene’ allo sguardo di chi ne indaga il significato.
Questi momenti di cronaca di minuscole dimensioni sono la misura minima che l’artista poteva adottare perché i ritagli di un racconto possibile si avvicinassero maggiormente ai frame di una pellicola: infatti la struttura filmica è il principale riferimento della sua arte che procede per ellissi, scoprendo poco dei significati che le scarse informazioni suggeriscono. La forte carica di ambiguità, anziché disorientare, intriga lo sguardo del visitatore contemporaneo abituato alla sintesi della fotografia, alla rapidità della comunicazione, ai flash che i media propongono/impongono in ogni istante di una difficile esistenza in cui la tecnologia ha soverchiato i significati, lanciando innumerevoli messaggi che spesso nessuno raccoglie.
Nel tempo dell’abbondanza di immagini, di stimoli, di visioni, Devriendt predilige la densità del ritaglio, come se, tra tante fotografie in grado di corredare un articolo di cronaca, dovesse scegliere pochi scatti che abbiano forza di documento. Tutto il resto è domanda, dubbio, possibilità, tutto il resto è silenzio in queste storie in cui esiste il personaggio ma è solo allusa la vicenda in cui si trova immerso.
Le piccole tele, vere e proprie unità narrative preziosamente dipinte, sono come i fotogrammi di una pellicola in cui qualcuno si sia divertito a ritagliare dei momenti, o rappresentano i frammenti sopravvissuti di un film andato perduto. I frame sono accostati per analogia o contrasto, spesso suggeriti come metafora, ‘estratti’ di una storia in cui si affacciano varie ‘figure’ care alla retorica (la sineddoche, la metonimia, l’allegoria) offerte con il ricorso a varie tecniche cinematografiche come lo zoom o il primissimo piano.
Fin dal primo momento lo spettatore è come stregato dalla contraddizione che esiste tra ciò che Devriendt intende comunicare – rapidi, drammatici istanti della vita contemporanea – e il mezzo espressivo adottato – la perfezione stilistica dell’antica pittura fiamminga: gli artisti che attingono da altri linguaggi narrativi (letteratura, fotografia, cinema) solitamente fanno ricorso ad una pittura veloce, immediata per riprodurre la fugacità, l’inquietudine, la fretta propria del nostro tempo, che trascorre divorando il presente e annullando il passato; egli, in opposizione alla tentazione di racchiudere la vastità in un frammento, sceglie, elidendo il tutto, di dedicarsi solo a pochi dettagli con la raffinata pittura lenta ereditata dai grandi maestri della tradizione, muovendo il pennello quasi fosse un gesto d’amore. L’artista, destreggiandosi tra densità e trasparenze di colore, cede a un virtuosismo che non è mai fine a se stesso ma è teso a valorizzare il soggetto/ oggetto dell’unità narrativa, perché possa racchiudere l’universale astratto di fronte al quale la sua ricerca sarebbe impotente.
Nelle composizioni proposte in scala così ridotta, l’attenzione al dettaglio lega dunque indissolubilmente Devriendt alla scuola fiamminga fondata a Bruges agli inizi del XV secolo: ma l’elemento che per i grandi maestri era solo un dettaglio - spesso da interpretare in chiave simbolica – utile alla composizione, per Devriendt diviene l’unico tema capace di suggerire il significato narrativo che insegue. E se l’esecuzione è raffinata, soffusa dalla chiara luce del Nord, non è mai per gioco o indugio narcisistico: l’artista ama profondamente quello che dipinge, perché respira in lui una profonda anima di esteta, che gli fa dire: “Questo è il tipo di blu che sta bene con le rose che sbocciano sulle vecchie cartoline”.
Il visitatore a cui sia capitato di imbattersi in un dipinto di Devriendt non si stupirà sentendo che l’artista quest’anno ha pubblicato un romanzo, “Maximes obsessie”, fatto di frammenti cuciti insieme come accade nei piccoli quadri. Il maestro di Bruges aveva già scritto racconti, spesso a latere delle composizioni pittoriche, ma il romanzo evidenzia il singolare tratto narrativo che percorre tutta la sua opera. Qual è l’ossessione di Massimo? Forse semplicemente ‘vedere’ nel momento in cui ‘osserva’; ‘ascoltare’ nel momento in cui ‘sente’. L’ossessione è la capacità di percepire il mondo, cogliere l’anima e il tutto, il singolo e le sue relazioni, il dettaglio e l’intero. Insomma, l’ossessione è la capacità – la condanna? – di essere totalmente calato nella realtà, perennemente in vibrazione con l’esperienza sensibile e le evidenze del quotidiano stratificato dalla cultura espressa nei secoli e nel tempo presente.
Ed è talmente interessante la possibilità di comprendere il romanzo attraverso i dipinti, che è inevitabile tentare una lettura dell’opera pittorica attraverso gli strumenti della narratologia, lo studio critico delle scelte e delle forme espressive della narrativa.
Perché l’intero lavoro di Devriendt in fondo è la rappresentazione di un grande romanzo, una Commedia Umana del terzo millennio in cui i capitoli sono costituiti da ‘cicli’, serie di dipinti (da tre a dodici) chiaramente collegati con fili di sottile interconnessione: una serie sconfina nell’altra, e certe immagini ritornano composte con una diversa proposta narrativa.
Devriendt è consapevole della complessità della comunicazione del nostro tempo e, di fronte alla impossibilità di abbracciare tutto ciò che attraversa velocemente il campo visivo, la mente sollecitata da infinite informazioni, sceglie la pregnanza intrigante del fermo-immagine, che blocca il movimento e congela l’emozione del personaggio, o fissa il dettaglio di un oggetto che si propone perentorio allo sguardo che indaga dello spettatore. Mancano i panorami, le vedute di insieme, i campi lunghi. Vincono il dettaglio e il primo piano per esporre la casistica delle nostre inquietudini, delle zone d’ombra che si attivano nel momento in cui l’attenzione è attratta dal dramma di un altro. Perché sono drammi quelli narrati, storie dal sapore noir, fatti di cronaca di piccola periferia, e se il ciclo è un formato pittorico che ha una lunga tradizione, Devriendt lo rivisita, travolgendo il senso primario costituito proprio dalla possibilità di raccontare attraverso le immagini: nelle serie, infatti, gli spazi vuoti contano ai fini del significato forse ancor di più degli spazi dipinti. L’incomprensione del testo dialoga con le tele dipinte, stimolando l’osservatore a immaginare ciò che non è stato messo in scena. È come se, attraverso la sua pittura, prendesse vita un enigma dei fotogrammi mancanti, che corrispondono nella scrittura agli spazi bianchi, ai silenzi così importanti per scrittori raffinati come Pirandello o Ungaretti. Tra chi sceglie di dire tutto (Proust) e chi decide di alludere, considerando superflua ogni maggiore informazione, Devriendt non ha dubbi: non importa la ragione per cui qualcuno può trovarsi nei guai, conta il terrore – e la reazione – del momento in cui si trova nei guai; non importa perché uno sia triste, conta che sia triste, e qui si focalizza la sua empatia.
La narrazione è ‘aperta’, tutto è possibile, il finale resta un mistero. Tale rappresentazione del vuoto, però, anziché generare un horror vacui, stimola la mente dell’osservatore a ricercare significati e nessi, a vedere tra gli spazi lasciati aperti ciò che non c’è, ciò che l’artista, alla ricerca delle poche immagini fondamentali, ha intenzionalmente omesso.
Nel tentativo di applicare all’opera pittorica l’analisi testuale, occorre distinguere prima di tutto il significato
(che cosa l’autore dice) dal significante (come lo dice), ma nelle pitture di Devriendt spesso i campi sconfinano e la forma stessa – una posa, un dettaglio, un colore – diviene significato, contenuto. È diverso rappresentare una donna ritraendola intera, oppure alludere a lei attraverso un paio di scarpe dal tacco alto abbandonate in una povera strada, in cui piccoli fiori bianchi brillano vividi in contrasto con la morte del passo oscillante.
I temi scelti, come i titoli stessi suggeriscono, riconducono a generi letterari e cinematografici di sicuro successo, dai polizieschi, al noir, alla fiction pulp. Spesso sono rappresentati archetipi, come la femme fatale, la giovane vittima sacrificale, i loschi figuri della malavita. Una macchina di lusso, una pistola, un cane diventano indizi che riconducono a tematiche di (triste) erotismo e violenza, ed è possibile che lo spettatore sperimenti un senso di frustrazione, perché non saprebbe immaginare per gli eventi un lieto fine, visto che non saprebbe neppure quale personaggio potrebbe meritarlo. Chi è l’oppressore? Chi l’oppresso, in queste storie che attingono dalla cultura letteraria dell’autore, dal cinema, la storia, l’attualità, la pubblicità?
La narrazione di solito parte da un antefatto e attraverso varie vicende arriva alla conclusione, ma i piccoli quadri giustapposti in modo intrigante non suggeriscono un andamento logico e cronologico convincente, sembrano piuttosto momenti di una storia di cui nessuno può davvero conoscere il senso: sono frammenti, paragonabili alle sequenze della scrittura, ma trattati con totale libertà, senza il vincolo dello scrittore di chiamare il lettore come un compagno di viaggio. Devriendt semmai sfida l’osservatore a individuare un significato nei piccoli quadri che compongono il ciclo, a trovare un significato ‘altro’ rispetto a quello che lui sapientemente cela, seminando indizi ma nello stesso tempo disorientando e ingannando; è come se si divertisse ad ascoltare le infinite, credibili letture che possono essere date dallo spettatore alla immagini offerte come una campionatura della società borghese, dove contano l’automobile, l’abbigliamento, la moda, il trucco, l’eterna giovinezza e la bellezza. Ma che cosa succeda davvero in queste storie di cui abbiamo solo degli istanti, questo non è dato sapere.
La narratologia studia, con termine preso dalla grammatica filmica, le sequenze del testo (unità narrative dotate di uniformità di contenuto e di forma) e le classifica, in quanto possono essere narrative, descrittive, riflessive o dialogiche. Devriendt scombina le carte ancora una volta, proponendo frammenti narrativi che non narrano, elementi descrittivi che non sappiamo attribuire a un personaggio o a un fatto, momenti riflessivi di una storia che non ha né capo né coda. Il dialogo è assente, la relazione tra i personaggi è solo intuita dallo spettatore, che può immaginare urla, spari o risate amare, ma non sa intuire le parole intercorse prima che l’autore, con maestria di entomologo, bloccasse con lo spillo sulla tela la farfalla oggetto del suo studio.
Tutto è paralizzato, immobile, ‘rien ne va plus’, ‘les jeux sont faits’, l’artista ha fissato il dettaglio per sempre perché sia oggetto di studio, e ciascuno possa fare ipotesi sul senso della storia e il destino dei personaggi.
In fondo Devriendt chiede di entrare nell’opera seguendo il flusso delle emozioni che ha inteso suggerire, senza nessi causali o elementi che facciano progredire la narrazione: se la fabula è più tranquillizzante per la successione logica e temporale, l’artista sceglie l’intreccio, dando ai frammenti un ordine temporale di cui solo lui possiede la chiave. Lo spettatore, in questo modo, è chiamato dentro, perché partecipi al montaggio delle sequenze che sembrano momenti di una narrazione impazzita, in cui la trama continua a sfuggire.
Viviamo di storie, sono il nutrimento a cui attingiamo quando vogliamo capire la vita, o sfuggire dalla nostra: storie vere o immaginarie, storie serie o gossip, storie di grandi uomini o piccoli personaggi: Devriendt desidera che lo spettatore, come un detective, ricostruisca la storia accennata, ribaltata, centrifugata e le dia un senso, non tanto alla ricerca dell’assassino ma per la comprensione del senso dell’assassinio in sé.
Osservando i quadri, infatti, si comprende qualche cosa, si intuisce che cosa potrebbe succedere o è successo, ma non si capisce assolutamente ‘perché’ sia successo. E questa verità resta davvero sepolta nella fantasia dell’artista, che non è disposto a condividerla con nessuno, come fa Maxime del suo romanzo, che tutto vede e tutto fiuta ma non ha nessuna volontà di condividere con gli altri personaggi quanto ha percepito della realtà immanente.
Utilizzando la categoria tratta ancora dalla narratologia, si comprende che il narratore è onnisciente, cioè della vicenda sa più dei personaggi ed è in grado di spiegare al lettore, ma a differenza di quanto avviente nel racconto, qui Devriendt sa ma non è intenzionato a dare spiegazioni, semmai si limita a seminare indizi, che comunque non portano a niente perché troppo manca perché ci sia una logica. Ed è proprio qui il maggior fascino del contenuto delle piccole serie, che dicono moltissimo (polisemia) senza dire davvero nulla: le scarpe color glicine abbandonate sotto un muro di mattoni tinto di bianco possono evocare infinite relazioni, possono suscitare innumerevoli reazioni, ma a nessuno è dato di sapere quale sia il significato ‘giusto’ nella coerenza narrativa delle piccole tele. Sarebbe interessante attivare un gioco di gruppo, in cui ciascuno liberamente compie associazioni con il suo vissuto, le sue paure, i suoi desideri: ne uscirebbe un caleidoscopio variegato in base alla cultura, all’età, al sesso dello spettatore, ma nessuno avrebbe la certezza di aver dato ai sandali la giusta connotazione, che resterebbe irraggiungibile. Chissà come ride Devriendt, deciso a mantenere il segreto, impegnato a suggerire e mai dire, mentre immagina il nostro tentativo di lettura, che non possiamo trattenere. Di fronte a queste immagini, chiunque è tentato di dare un senso, un ordine, di suggerire la logica vincente, ma nessuno svelerà il segreto, che resterà sigillato nella mente del suo autore/narratore che opera con gli strumenti della focalizzazione esterna, ponendosi al di fuori della materia narrata. Il paragone con il mondo letterario è immediato: viene da pensare alla scuola dei Naturalisti, nata in Francia alla fine dell’Ottocento, che studiavano il personaggio come una cavia da laboratorio secondo i parametri sociali del filosofo Hippolyte Taine, che sosteneva che l’uomo è il risultato di tre elementi, “race, milieu, moment”, che corrispondono al fattore ereditario, all’ambiente sociale, al momento storico, e ne condizionano il carattere e i comportamenti. Qui il narratore è oggettivo ed esterno, ma Devriendt va oltre e si avvicina piuttosto alla teoria di Giovanni Verga, che nella introduzione alla novella “L’amante di Gramigna” arriva a dire che la mano dello scrittore deve scomparire al punto che l’opera deve sembrare ‘essersi fatta da sé’, senza la partecipazione dello scrittore che si sarebbe limitato a registrare i fatti avvenuti omettendo completamente ogni giudizio.
Qui la mano dell’artista è visibile ad ogni pennellata, ma è mano che crea e non esprime opinioni o valutazioni, non assolve e non condanna, come farebbe un giudice consapevole di quanto siano limitate le leggi per comprendere – e salvare - l’animo umano.
La narratologia indaga infine le scelte relative allo spazio (aperto o chiuso, qui o altrove …) e al tempo (passato o presente, reale o immaginario), ma la sfera d’azione di Devriendt è circoscritta all’hic et nunc, un eterno presente che condanna i personaggi a interpretare per sempre il medesimo ruolo, un eterno presente che vede i personaggi reali imprigionati nel ruolo che la società ha incollato addosso, incurante delle reali motivazioni che li spingono ad agire, indifferente alle istanze inespresse, ai bisogni e ai sogni che restano soffocati dalla ‘lettura’ dello spettatore, per il quale quello che egli crede è più vero di ciò che è accaduto.
Isabella Colonna Preti