David Dirrane Bowes è nato a Boston nel 1957. Ha vissuto a Newton, cittadina nei pressi di Boston quindi a New York, dove è stato a stretto contatto con gli artisti più famosi degli anni ‘80. Ha esposto in importanti gallerie e spazi pubblici negli Stati Uniti e in Europa. Significativa la partecipazione a Terrae Motus, invitato nel 1986 da Lucio Amelio, e alla 48Biennale di Venezia (1999). In Italia le sue collezioni sono conservate presso Terrae Motus, Caserta; Collezione Maramotti, Reggio Emilia; Museo d'Arte Contemporanea, Lissone. In USA presso Walker Art Center, Minneapolis e Portland Art Museum, Portland. Bowes vince il Premio Lissone 2020-2021, ‘Breve storia di una nuova prospettiva in pittura’.
È un pittore-viaggiatore, innamorato dell’Oriente e della storia dell’arte, di cui è un grande conoscitore. Ama molto l’Italia, dove ha lavorato tra Roma, Napoli, Firenze, Palermo e Torino prima di stabilirsi definitivamente a Torino.È il 1983 – David ha venticinque anni – quando Annina Nosei, la coraggiosa e audace gallerista che nel 1981 aveva organizzato la prima mostra personale di Jean-Michel Basquiat – arrivando a New York nello studio del giovane artista bostoniano rimane affascinata dall’aria italiana che emana dalle grandi gouaches.
Quando gli chiede quanto tempo abbia soggiornato in Italia, David risponde che non l’ha mai vista. Immediatamente Nosei organizza il viaggio che il ragazzo aveva a lungo sognato, donandogli cinque mesi a Roma di vita meravigliosa, incontri, lavoro, mostre e visite nei luoghi più belli, che daranno struttura all’impalcatura creativa che andava progressivamente definendosi.
L’arte è un moto interiore, che dall’osservazione della realtà trae solo gli strumenti per i giochi della rappresentazione, non l’essenza, che resta una questione nascosta, essenzialmente intima.
Tutto ha origine dalla lenta osservazione del bambino che osserva Gerald dipingere. È il fratello maggiore, appassionato di Odilon Redon. Tutto nasce da una mostra di disegni di Redon vista insieme al Moma di New York, nutrendosi del cibo del fratello grande, pittore figurativo capace di affascinare il ragazzino incline al sogno e alla poesia.
O forse tutto era già cominciato dal prodigio di una semplice riproduzione della Vergine delle rocce di Filippo Lippi, appesa alle pareti della casa dove viveva la numerosa famiglia. Il sorriso della Vergine parlava al bambino, ammaliato da tanta bellezza che non immaginava possibile. Solo crescendo David seppe che quel quadro era la riproduzione di una delle tante versioni che Lippi, antesignano della ‘ripetizione’ che poi avrebbe affascinato Monet o Warhol, aveva dipinto conservando la stessa scena, la stessa posa, la stessa composizione e la stessa modella. A quel tempo gli era sembrata unica, fatata e irraggiungibile. E aveva desiderato immergersi in quella pittura perfetta e bellissima, fondersi nella forma che era al tempo stesso sostanza.
L’arte è la possibilità di creare quello che solo l’artista vede e sente, quello che sogna, immagina e ricorda. È la facoltà di osservare un viso di Madonna e vedere un mondo intero, che squarcia orizzonti e annulla l’infinito. L’arte è la capacità di rendere tangibile l’etereo, fissare un sentimento, annullare la distanza spaziotemporale per restituire all’uomo il tempo assoluto dell’emozione, lo spazio privato di tutto, colmo solo di illuminazione.
Sicuramente tutto era iniziato ancora prima, quando durante la Seconda Guerra Mondiale l’aviatore ventiquattrenne John Bowes dalla Libia era arrivato in Italia al seguito delle United States Army Air Force. A lungo rimase con la sua unità a Napoli dove poté conoscere il territorio, l’arte, il costume di una delle regioni più generose d’Italia. Un giorno a Capri il pittore Ugo Matania – famoso per le illustrazioni sul Mattino, Domenica del Corriere, Corrierino dei Piccoli – in cambio di caffè, zucchero e sigarette gli fece il ritratto. L’aviere mise anche quello in valigia, senza fretta di partire. Tornò nel Massachusetts carico di porcellane, libri, piccole edicole di Madonne e crebbe poi i figli nel culto di quella terra splendida di doni, resa ancora più prodiga, se possibile, dalla fame e dalla miseria di quegli anni terribili. Napoli contesa da due eserciti, bombardata e indomita gli restò sempre nel cuore, come restò sempre appeso alla parete di tutte le case dei Bowes - Dorchester (Boston), Farmingdale, Long Island New York e Newton, Massachusetts - il disegno di Matania che parlava di giovinezza: insegnò a David bambino la velocità espressiva del tratto di matita, la potenza del chiaroscuro, la capacità di uno sguardo rappreso sulla carta di dire più di mille parole, l’efficacia di tutto quello che manca, perché è sottinteso o alluso. Quell’opera era più preziosa di un disegno di Leonardo o di Ingres, perché raffigurava il padre e perché era in casa, vicina e il bambino poteva cibarsene ogni volta che ne sentiva il desiderio. Era bella come un disegno ‘classico’, ma ancora più bella perché raffigurava un frammento del cuore di un figlio desideroso di comprendere il padre.
David guardava innamorato quel giovane che non aveva conosciuto, cercando nei tratti di suo padre ciò che il disegno aveva rubato e trattenuto, ciò che aveva salvato.
L’Italia attraverso le storie del professore, aviere ormai in congedo, era il mondo mitico della bellezza e della felicità, il luogo magico nato dalla fusione di un clima meraviglioso con il temperamento di un popolo meraviglioso capace di aprire la casa e donare tutto. L’Italia erano gli anni giovani del padre, il desiderio di conoscere quel sole così caldo, di vedere quei cieli così azzurri intravisti nei vicoli di paradiso e povertà.
L’arte consente di restituire l’attimo, di trattenere una giornata perfetta, di donarla anni dopo agli altri che si avvicinano per amore e desiderio di capire. L’arte è più forte della morte: qualche cosa della persona, dei sentimenti e dei sogni, dell’ora e della stagione aleggia per sempre attorno all’immagine, sia che rispecchi fedelmente il reale, sia che racconti fugacemente l’immaginario. L’arte è sentimentale, catalizza emozioni e visioni; è seduttiva, suggerisce senza esaurire la curiosità; è generosa, dona inaspettatamente, al di là della volontà e della coscienza. Semplicemente, un’immagine che ci tocca entra ‘dentro’, e non si allontana mai più.
È possibile comprendere come tale alchimia familiare abbia potuto intridere gli anni della formazione dell’artista, guidandolo a compiere passo autonomi e totalmente indipendenti dalle correnti e dalle mode del momento. Bowes infatti, nonostante abbia frequentato i più importanti artisti del suo tempo – Warhol e Basquiat prima di tutti – ha saputo mantenere un vocabolario originale e libero, privo di condizionamenti e suggestioni mutuate da altri.
La grammatica della nostalgia compone il grande romanzo fatto di frammenti disseminati negli anni, dove leggere figure occupano con eleganza la tela di prati verdi e cieli azzurri, come nelle migliori gouaches napoletane. Piccole figure o teste dalle forme fuori misura, fiori e uccelli, oggetti e arabeschi: tutto comunica calma e serenità, anche se si tratta di una serenità apparente, di una calma inquieta perché sempre c’è un significato ‘altro’ nel surreale inedito di Bowes, che procede con gli occhi girati verso il passato anche quando sembra raccontare l’istante immanente, o progettare un diverso futuro per l’umanità alla ricerca di senso.
È il cuore, più che lo sguardo, girato all’indietro, verso la raffigurazione della Vergine del Lippi appesa alla parete di casa, verso le porcellane dal sapore italiano che abitavano le credenze. Con grande potenza visionaria Bowes occupa gli spazi della tela costruendo idilli sereni dove all’uomo sia dolce abitare, in equilibrio tra suggestioni di Tiepolo e grottesche pompeiane, Barocco e nuovo Romanticismo, Surrealismo e ‘meticoloso pseudo graffito style’, come scrisse il critico Alan Jones (2016).
Affascinato dal miracoloso spettacolo della vita quotidiana, Bowes riversa la sua carica visionaria nelle opere che cantano l’elegia di un’epoca in cui l’uomo è ospite gentile della Natura che si manifesta concedendosi, a volte, con la divinità in armonia con l’umanità. In questo originale Surrealismo, la nostalgia danza il pas de deux con l’ironia, generando un misticismo laico che ha forza poetica e sguardo antropologico.
Gli sono compagni di viaggio, oltre agli amici americani – Basquiat, Condo, Keith Haring, con cui ha condiviso gli anni della giovinezza – gli artisti italiani intercettati nei lunghi soggiorni a Roma, Napoli, Firenze e poi a Torino, dove risiede da molti anni: Ontani, De Maria, il compianto Salvo, tutti i grandi conosciuti nel tempo della formazione, come Schifano o Emilio Prini, capace insieme al geniale gallerista Lucio Amelio di trascinarlo alle mostre di Scipione, dell’amato De Pisis o De Chirico, ritrovato poi ogni giorno, come si incontra un amico, in particolari scorci torinesi.
Grande conoscitore di cinema e musica, appassionato lettore, Bowes dipana una ‘utopia romantica’ (sono ancora parole di Alan Jones) in cui la visione intima e individuale si interseca con la storia universale depurata da sofferenza e decadenza: con leggerezza a tratti inquietante, con l’ingenuità accorta di chi molto ha visto e vissuto, i quadri di Bowes suggeriscono che la vita è un ossimoro in cui l’uomo ha la facoltà di muoversi con passo di Pulcinella. E poiché è bene lasciare il dolore fuori dalla porta di casa, poiché è bene alzare il volume della musica affinché non sentiamo che il dolore bussa, nell’arte di Bowes tutto è giovinezza.
“Chi vuole esser lieto, sia, di doman non c’è
certezza”.
Isabella Colonna Preti
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