VINCENZO AGNETTI

Quando mi vidi non c’ero  

               

In fondo tutta la ricerca di Vincenzo Agnetti (1926 – 1981) è racchiusa in questo binomio - contraddizione in termini – rappresentato nell’Autoritratto del 1971. L’ossimoro fondativo della ‘filosofia negativa’, che nega nel momento stesso in cui afferma di possedere la chiave della conoscenza, rappresenta il nucleo dello studio che accompagna Agnetti nel corso di tutta la breve esistenza, motivando la produzione poetica e pittorica, sostanziando la ricerca teorica, guidando le scelte di critico d’arte.

Ricordare per dimenticare – è rappresentativo il libro-opera Dimenticato a memoria, del 1969 – , cercare un codice comunicativo negando la finalità stessa della comunicazione, comporre per dissolvere, tentare di travalicare l’immanente negando però che esista un infinito che non siano le pampas, la tundra, il deserto, i luoghi del nulla dove Agnetti viaggia alla ricerca dell’oblio del tutto.

Nato a Milano eppure collocato con la mente a un passo dalle stelle – non è un caso che sia Lucernario del 1981 l’ultima opera rimasta incompiuta – attraversa con inquietudine di poeta e visionarietà di artista le esperienze della città che andava ritagliandosi un ruolo da protagonista sul finire degli anni ’50.

Gli studi compiuti all’Accademia di Brera e la breve frequentazione del Piccolo Teatro danno solo l’avvio a quello che diventerà presto l’originalissimo equipaggiamento culturale di un intellettuale completo come solo l’Umanesimo conobbe, in equilibrio tra studi umanistici e scienza, teoria e sperimentazione, dogmatismo e libertà. È dapprima scrittore di versi e pittore informale, ma distrugge ogni traccia di questi esordi, mantenendoli dentro di sé con sentimento contrario, in dialogo costante con la sua motivazione più intima.

È apparentemente estemporaneo come solo un creativo può essere, minuziosamente perfezionista come solo un teorico riesce a diventare, coltissimo e raffinato, geniale e generoso. L’amicizia con Enrico Castellani e Piero Manzoni provoca un effetto volano alla sua voce apparentemente vocata alla solitudine, che nel darsi agli altri diviene più sicura: dalla fine degli anni ’50 agli inizi degli anni ’60, dopo aver perfino sperimentato l’attività di scultore ceramista ad Albisola, dove Manzoni va per le vacanze, dove incrociano Lucio Fontana, condivide con gli amici ideali, progetti, aspirazioni artistiche.

Naturalmente poi distrugge anche le ceramiche di quegli anni, come tante altre cose, come non fossero mai esistite.

È un finissimo esteta, dotato di rapido intuito e forza di penetrazione: l’aria di rinnovamento che si respira a Milano lo motiva a comprendere il nuovo linguaggio che gli amici Castellani e Manzoni, uniti ideologicamente attorno alla rivista Azimuth (da loro fondata nel 1959) andavano cercando, basato sull’azzeramento dell’esperienza artistica precedente. Ma è proprio quando comprende tutto, quando i suoi saggi sostengono con successo l’opera degli amici, che decide di partire. Dapprima la meta è l’Argentina, dove lavora nell’industria dell’automazione elettronica, poi saranno la Scandinavia e l’Arabia.

Tutta una grande operazione di mettere e cavare, aggiungere e sottrarre, imparare e cancellare, in una oscillazione tra Tempo Perduto e Tempo Ritrovato – la figlia ricorda che il papà leggeva ad alta voce nella sua camera di bambina la Recherche di Proust – che ancora non può che condurre ad un tempo di nuovo perduto. E dopo l’annullamento di tutto nelle terre dei diversi deserti, di cui rimane traccia nelle duemila pagine dei quaderni di appunti intitolati significativamente Assenza, Agnetti è pronto per l’arte.

Nel 1967 torna in Italia e scrive per gli amici artisti o si dedica a brevi saggi teorici, pubblicati su riviste o recitati in monologhi.

Non dimenticherà mai le possibilità della scena, le infinite occasioni della voce, lui che nella giovinezza, al Piccolo, aveva incantato maestri e compagni di corso con la sua voce così bella, impostata e calda, che lui stesso amava ascoltare.

Lo attendono quindici anni di vita frenetica tra ideazione, realizzazione ed esposizioni in Italia e all’estero: il successo di critica è immediato e incoraggiante per trovare nuovo fuoco – non è quello rubato agli dèi, semmai è donato, nato per autogenesi – per l’assillo che lo domina, nella ricerca dell’espressione che dica tutto senza dire, in fondo, qualche cosa di definitivo. E non c’è artificio, non c’è derisione dello spettatore, piuttosto il grande rispetto di coinvolgerlo nel dinamismo della comunicazione che resta fluida, ambigua, criptica e astratta anche quando le parole apparentemente veicolano un contenuto dal significato evidente. Per lui lo spettatore è importante quanto gli altri elementi dell’opera, anzi, lo spettatore è strumento imprescindibile perché l’opera abbia compimento e Agnetti desidera che in qualche modo ‘continui’ a vedere la mostra con gli occhi della mente, anche dopo essere uscito dalla galleria dove ha visto, spesso disorientato, le opere esposte: poiché si tratta di un atto comunicativo, occorre necessariamente un destinatario che comprenda lo stesso codice, anche se il codice è apparentemente impazzito perché assomiglia ad una società di difficile classificazione, dal momento che tutto deve essere di nuovo fondato.

La produzione di questi anni è frutto di una ricerca inesauribile e feconda in cui domina proprio la riflessione sul linguaggio, come dimostrano i Feltri – pannelli scritti con lettere realizzate con la tecnica dello stencil e poi marchiate a fuoco o dipinte – che raffigurano ritratti e paesaggi rarefatti e onirici o gli Assiomi – lastre di bachelite nera con incisi paradossi, contraddizioni, assiomi, più rigorosi dal punto di vista concettuale rispetto alla forte carica poetica dei Feltri.

È inutile tentare di individuare il confine tra Agnetti poeta e Agnetti artista o critico, filosofo o saggista, perché è stato sempre una sola cosa, a partire probabilmente dagli anni trascorsi al Piccolo a capire se poteva diventare attore. Fondamentalmente, anche quando si è mostrato più freddo e distaccato, Agnetti ha messo in scena se stesso, con il suo eterno dubbio amletico tra le possibili opzioni esistenziali – e Progetto per un Amleto politico è il titolo di un’opera del 1973 – e il gioco di inventare un teatro statico, operazione già di per sé contraddittoria, perché non esiste uno spettacolo senza azione e senza movimento: eppure l’artista dimostra che anche un oggetto o un’opera d’arte possono essere personaggio, e basta una lettera o un numero perché si possa parlare di testo, bypassando in questo modo l’evidente limite della proposta drammaturgica, avvicinando l’opera alle performance che stavano conoscendo una stagione di successo crescente, al passo con i tempi. All’artista il compito di scegliere regia e codici linguistici.

Questa è forse la ragione dell’affermazione nel momento in cui Agnetti intraprende l’avventura a New York: la capacità di passare continuamente da un mezzo espressivo all’altro lo avvicina alla ricerca dei suoi contemporanei e spinge il movimento Fluxus ad adottarlo senza esitazione, integrandolo nella schiera sempre più nutrita degli artisti che gravitavano attorno a Maciunas.

E anche se Agnetti trova nel caos della grande città cosmopolita lo stesso silenzio dei luoghi desertici che tanto aveva cercato, a New York non si ferma mai per periodi molto lunghi ma inizia una vita di pendolare dell’arte, così simile all’andamento magmatico, fluido del suo pensiero mai fisso, in oscillazione tra diversi livelli della mente, tra diverse esternazioni della sua estetica sempre coerente, se la si legge oggi a quarant’anni di distanza dalla morte. Sono dell’ultimo periodo le Photo-graffie, in cui la carta fotografica esposta alla luce viene graffiata per tracciare dolcissimi paesaggi della mente, sottili fili della memoria che già vola verso l’oblio, giochi impalpabili di punti luminosi, fiori che tremano nella notte o personaggi fragili come fantasmi.

L’eterno poeta sembra tornare al punto di partenza: non c’è qui la ricerca di un bilancio dell’uomo maturo, semmai lo stupore giovanile che nella Milano degli anni ’50, ancora devastata dai bombardamenti eppure così desiderosa di rinascere, aveva messo in moto il grande sogno di un ragazzo incapace di conciliare gli opposti, o poco interessato a farlo. Appassionato studioso del linguaggio, crea una matematica in cui le lettere non implicano concetti algebrici ma cantano piuttosto la musica dell’universo primordiale e astratto, il solo che assomigli all’unico infinito futuro possibile in cui nessun uomo – in un iperbolico ossimoro che piacerebbe ad Agnetti – saprà più né parlare né leggere. Solitario e bisognoso di condivisione, sognatore e razionale, fuori da ogni corrente eppure più di tutti capace di interpretare il suo tempo nonostante non abbia avuto alcuna pretesa di interpretare il mondo, Agnetti parla ancora con una voce credibile, proprio per la convinzione che non esista una sola risposta di fronte alla complessità delle domande. Inevitabile che il pensiero vada ai versi di Montale (Non chiederci la parola, 1923) che sembrano dipanare con fluidità ciò che Agnetti, con diverse variazioni sul tema, si limita a suggerire per enigmata:

 

… Non domandarci la formula che mondi possa aprirti

sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.