YAYOI KUSAMA
Diventare una sola cosa con l’eternità
Ha dieci anni Yayoi Kusama (Matsumoto, 1929) quando disegna il ritratto di una bambina vestita compostamente con il kimono tradizionale, il viso chino in modo pudico, gli occhi chiusi, la bocca chiusa, il naso fortemente marcato con la matita nera. I capelli sciolti. Tutto lo spazio è riempito di pois, piccoli e fitti sul volto, più grandi sull’abito e sullo sfondo. Tutta la vita non è stato altro che ripetere all’infinito il prototipo del dolore silenzioso allo scopo di eliminare la figura, lasciare solamente i pois a rappresentare l’urlo e l’esistenza, la faticosa immanenza e il desiderato infinito a cui tende.
Il grande magma dell’artista giapponese lascia intravedere in filigrana varie correnti dagli anni ‘50 in poi, dal Surrealismo al Minimalismo, dalla Pop Art alla Land Art, gli Happening, le Performance, ma come avviene per Frida Kahlo, che a lungo lottò per non essere considerata surrealista e restare fuori da ogni classificazione, solo la biografia di Kusama, solo la sofferta esperienza dolorosa consente di capire come la sua arte resti al di fuori di qualunque movimento, di qualunque definizione, indipendente dalle esperienze dei suoi contemporanei. Non occorre una approfondita analisi psicanalitica per riconoscere nelle opere il disagio che accompagna l’intera esistenza dell’artista, che soffre fin dall’infanzia di disturbi ossessivo- compulsivi e allucinazioni, causati dalle ripetute violenze domestiche. La salvezza è racchiusa nella possibilità di andare via, differenziarsi, annullarsi nell’esperienza collettiva per colmare il vuoto immenso in cui si sente impotente e prigioniera.
Nel 1957 arriva a New York, città davvero difficile in quel tempo per una giovane artista, per di più giapponese. Eppure la sua appassionata energia, la sua sregolatezza innocente, la vitalità ribelle e proattiva attirano in pochi anni l’affetto e la simpatia di grandi artisti già affermati come Andy Warhol, Lucio Fontana e Joseph Cornell.
Tra Performance audaci e Happening scandalosi, che comportano perfino l’arresto, richiama l’interesse della critica e del pubblico e comincia a esporre presso le più importanti gallerie d’America e d’Europa. Ed è proprio in Europa che il suo linguaggio raffinato viene compreso in modo più acuto, tanto che Kusama, che in qualche modo – per la molteplicità dei media – utilizzati negli Stati Uniti era riconducibile a Fluxus, viene invitata a partecipare ad alcune mostre del Gruppo Zero.
Rivede Lucio Fontana che ha un sentimento protettivo per la giovane donna quanto prova reale ammirazione per l’artista originale dalla visione inesauribile, tanto da offrirle un atelier nel suo studio di Milano. È significativo il fatto che avviene nel 1966 in occasione della Biennale di Venezia: Kusama improvvisa nel giardino davanti al padiglione italiano l’istallazione Narcissus Garden, 1500 sfere riflettenti sparse su un tappeto di erba sintetica: specchi per moltiplicare il riflesso, o allontanarlo da sé catturando il riflesso del mondo. L’artista narra che fu Fontana a finanziare il progetto, offrendole 600 dollari per comprare a Firenze le sfere, che poi pazientemente e allegramente collocò con lei sul prato, giocando a capire come riflettessero meglio il cielo, i gabbiani e le fronde degli alberi.
Ma non è servito allontanarsi dal Giappone per lasciare alle spalle l’incubo dell’infanzia violata, la malattia mentale che molto probabilmente, alla ricerca di una via di fuga, ne è derivata: l’artista è lucidamente consapevole della sua patologia e da sempre cerca nell’arte la terapia che, distaccandola dal faticoso mondo reale, la ponga in contatto con un infinito rassicurante, seppure immaginario, insistentemente ricreato sulla tela o nelle tre dimensioni. La malattia mentale di Kusama è la spersonalizzazione, un disturbo dissociativo in grado di alterare la percezione di sé che comporta un totale distacco dal corpo e dai processi mentali: ciò significa per l’artista immergersi nell’immaginazione per trovare la realizzazione del suo mondo interiore, costituito da un infinito astratto colmato all’infinito, in modo ossessivo, da punti – denominati pois – che ne fissano la reale esistenza, trattengono la forma perché diventi esperienza “esteriore”, specchio della sua costante visione. I Want To Live Forever , il titolo di diverse opere, racchiude l’unico principio attorno a cui ruota tutto il lavoro di questa donna appassionata che vive come se fosse calata in una eterna performance: al principio “Penso dunque sono”, Kusama oppone l’affermazione “Dipingo dunque sono”, aggrappandosi alla vita attraverso la ripetizione inesauribile degli atomi – cellule – monadi che, colmando lo spazio, trattengono il tempo e lo disegnano su misura della sua intelligenza geniale, della sua inesauribile vitalità. Le ricorrenti reti (Net) e i pois la rassicurano: nella giovinezza ha affermato di poter dipingere fino a 50 ore consecutive senza mangiare, senza dormire. E tra l’altro, nella New York del periodo in cui era una semplice sconosciuta provocatrice originale, spesso ha saltato i pasti, spesso non ha trovato un alloggio, perché era piuttosto alla ricerca di uno studio in cui poter fissare il turbine che le ruotava in testa, nel tentativo di trovare finalmente un ordine. La malattia mentale è un paesaggio interiore che non l’abbandona mai, ma l’arte consente a Kusama di estrarlo da sé, allontanarlo, farlo diventare ‘altro’ e infine donarlo al pubblico, all’eternità. “Mentre dipingo si generano naturalmente delle onde e questo ha su di me un effetto molto buono … mi fa sentire il ritmo e la vibrazione.”
Nei punti ripetuti regolarmente, ossessivamente, qualcuno ha visto frammenti del cosmo, particelle vaganti che nella regolarità della costruzione ritrovano le regole della materia, ma basta osservare il disegno realizzato da Kusama a dieci anni per capire che quei piccoli cerchi dipinti uno ad uno sono gli elementi che la compongono, miriadi di tracce di sé, fisiche e metafisiche: l’artista riesce ad esistere solo nella rappresentazione realizzata attraverso la pittura e la scultura, che ristabiliscono l’ordine e donano senso al faticoso, eterno tentativo di conciliare i mondi opposti ‘dentro’ e ‘fuori’ di sé, nel sogno di una armonia e di una luce che guarisca e salvi.
L’infinito può essere così misurato nello spazio di una tela, piccola e preziosa come un diario intimo o grande come un’intera parete per rappresentare la frantumazione atomistica di un’anima in perenne ricerca di un ubi consistam; l’infinito può essere agguantato e fissato su una scarpa o una zucca, per dimostrarne l’esistenza, altrimenti vaga e fragile. Eppure Kusama non è una donna fragile, è ferita. È determinata e sicura di sé, come dimostra il suo restare fedele al primo linguaggio che già raccontava tutto. Eppure un forte sentimento di horror vacui l’accompagna da sempre, risolto con la trovata di riempire il mondo di punti o di reti, per fissare il reale o irretirlo in una gabbia ontologica da cui niente potrà sfuggire, in cui tutto sarà trattenuto e finalmente compreso.
Quando nel 1973 torna in Giappone, probabilmente delusa per non essere riuscita a realizzarsi nel complesso scenario americano, è praticamente una sconosciuta; lei che era finita sui giornali perché si è mostrata nuda in pubblico per gridare contro la guerra del Vietnam, in patria non è nessuno; è di nuovo solo la bambina violata, che può salvarsi unicamente attraverso l’arte. Si fa dunque ricoverare in un ospedale psichiatrico di Tokyo famoso per il suo programma di arte terapia, dove vive tuttora, dove c’è il suo studio in cui ricrea all’infinito i quadri della serie Infinity Net, con differenti versioni frutto di idee sempre nuove. È da poco rientrata in Giappone quando scrive l’autobiografia Odyssey of My Struggling Soul (Odissea della mia anima di lottatrice), che molto dice sul viaggio compiuto dall’artista famosa per le zucche e i grandi fiori, le performance di liberazione sessuale post sessantottine, i piccoli falli moltiplicati all’infinito, in un tentativo di esorcizzazione condotta con leggerezza su un tema drammaticamente vicino alla sua esperienza umana. Eppure, nonostante le reti lascino intravedere tutta la fatica esistenziale di Kusama, è la luce che alla fine vince su tutto, come mostra l’opera Aftermath of Obliteration of Eternity del 2009: il soffitto e le pareti di una piccola stanza sono rivestiti di specchi, il pavimento è coperto da un sottile strato di acqua; un numero infinito di piccoli led luminosi, posizionati su un cavo che pende dal soffitto, crea un gioco magico di riflessi; le luci intermittenti sembrano candele votive che offrano all’infinito il rosato chiarore che, moltiplicandosi nel riflesso dei molteplici specchi, crea un bozzolo di calda, rassicurante luminosità.
Copyright © 2021 DDProject