Da più di vent’anni Charlotte Dumas realizza foto di animali, soprattutto quelli come cani e cavalli che hanno un legame particolare con l’uomo, addomesticati e addestrati fin dall’antichità per aiutare nella caccia e nella sorveglianza dei villaggi, alleviare la fatica dei pesi e il lavoro dei campi, facilitare gli spostamenti. Ma l’artista, anziché cogliere i momenti che li vedono in una condizione di libertà, preferisce indagare con l’obiettivo proprio la situazione che si realizza quando l’animale è alle dipendenze dell’uomo, perfino in condizioni di cattività, come capita in uno zoo.
Ha iniziato a esporre nel 2001 alla Rijksakademie for Visual Arts di Amsterdam, dove si è formata, proponendo la prima serie di ritratti di cani poliziotto: Dumas infatti è particolarmente attratta dal tema del dominio da parte dell’uomo, e osserva i metodi per controllare la naturale aggressività, le tecniche per giungere a piegare totalmente la volontà dell’animale, fino a farne un docile strumento. Seguono le serie in cui ritrae cavalli della polizia e dell’esercito, tigri in cattività, lupi allo stato brado, cani di strada, per dedicarsi poi, dieci anni dopo, ai cani da soccorso che nel 2001 avevano cercato i feriti e le vittime sotto le macerie del World Trade Center, e infine allo studio di alcune razze equine in via di estinzione individuate in Giappone.
Poiché l’indagine è tesa a far emergere la natura primigenia dell’animale, costantemente soffocata, il periodo che precede il momento dello scatto è particolarmente importante: Dumas deve ambientarsi, osservare, entrare in contatto con gli animali, guadagnarne la fiducia. Solo dopo questa fase è pronta a fotografare, perché sa che lo sguardo del cane o del cavallo sarà finalmente ‘purificato’, pronto a vedere ed essere ritratto. Con una preparazione così scrupolosa, il numero di scatti realizzati risulta molto esiguo, non più di sei – nove all’anno, ma ogni ritratto, in questo modo, risulta denso di significati. Gli animali capiscono che Charlotte è lì per loro, capiscono che è alla ricerca dello spirito originario, mortificato e perfino violentato dalle necessità dell’uomo, come avviene per i cavalli addestrati dai carabinieri a fingere di essere morti: se tale tecnica poteva garantirne la sopravvivenza nei tempi in cui ancora si combatteva con gli eserciti a cavallo, oggi risulta inutile, perfino gratuitamente crudele. Lo sguardo del cavallo è rassegnato, seppure orgoglioso di svolgere il suo compito – la rappresentazione della morte – secondo le richieste dell’addestratore, ma se la fotografia lo coglie nel momento del riposo, quando l’uomo non lo sorveglia, si può facilmente vedere la desolazione provata da un animale nato per correre libero.
È un esempio tra i tanti che si potrebbero individuare, che dimostra come a Dumas interessi arrivare al cuore dell’animale, per cogliere che cosa sarebbe se non ci fosse l’uomo. Tra l’altro, quale idea dell’uomo possono avere gli animali? Provano rispetto o disprezzo? È attaccamento o semplice obbedienza, visto che il frustino non lascia mai la mano dell’addestratore? Sicuramente devono anche imparare a rassicurare l’uomo e in qualche modo sedurlo, come avviene per i cani randagi di Palermo, se vogliono mangiare: adottati dalla città, nutriti come per caso, vagano senza meta apparente o si scaldano al sole, come i clochards abituati a resistere per sopravvivere.
Ogni animale fa parte del dominio umano, e di solito è prigioniero. E non è necessario che sia allo zoo, per essere in gabbia. Non importa se gli è destinata una bella coperta su cui distendersi o se il cibo è il più selezionato: ciò che rileva è che non vive come la natura aveva stabilito. Non mangia, non si accoppia, non si muove e neppure dorme quando vorrebbe, ma solo se e quando lo concede l’uomo/custode/padrone/istruttore. Può crearsi un rapporto di fedeltà, a volte perfino di amore, ma spesso si tratta dell’amore impaurito e servile che la vittima riserva al carnefice.
Per sottolinearne la vulnerabilità, tratto che vede dominante, Dumas ritrae gli animali soprattutto sdraiati, nel luogo del riposo, in una posa di abbandono totale: è il momento in cui l’artista riesce meglio a comprendere il sentimento dell’animale, perché senza il controllo dell’uomo è più libero di esprimere quello che il suo cuore sente.
Occorre stabilire il confine tra il ritratto di un cavallo o di un cane e la rappresentazione dei nostri sentimenti, delle nostre paure. È necessario capire se Dumas faccia ricorso agli animali alla ricerca di un simbolo delle nostre emozioni; comprendere perché ritroviamo il ritratto dei nostri pensieri nella malinconia di uno sguardo equino, nella pelliccia che salva il lupo dal gelo, nelle piccole zampe inermi, abbandonate di un cane abbandonato.
Gli animali non sono un simbolo, Dumas semmai li sceglie come metafora di una data condizione umana, ma il cavallo rimane un cavallo e il lupo rimane un lupo. E forse proprio questo genera la commozione che si prova nell’osservare i ritratti, perché percepiamo con chiarezza che un cavallo e un cane possono conoscere le nostre stesse esperienze di sottomissione, solitudine e abbandono, il nostro bisogno di autonomia, rispetto, libertà. È da escludere, dunque, che si possa cedere alla tentazione di una lettura antropomorfa: gli animali di Charlotte non sono specchio dei nostri pensieri ma hanno valore assoluto, e la rappresentazione della fatica o della sofferenza è coinvolgente proprio perché rivela la fatica o la stanchezza dell’animale, che guarda nell’obiettivo con le difese abbassate, sapendo che la ragazza non gli chiederà altro che essere se stesso: la tigre attende di trovare il varco che la renderà libera; il lupo mantiene, diffidente, le distanze, mosso dal bisogno primario di sopravvivere ad ogni costo; il cavallo sopporta di morire, nella finzione del galoppatoio, perché sa che poi ci sarà nella giornata il premio di una resurrezione per la sua sottomissione; il cane vigila sempre, sia che dorma abbandonato, fiducioso sia che si erga potente e dominante sulle quattro zampe, come a voler segnare il territorio.
Sono creature con una individualità spiccata, con una precisa identità, tanto è vero che Charlotte sceglie il loro nome come titolo dell’opera. Se hai un nome, esisti; e loro esistono, anche se trascorrono il tempo in condizioni decisamente ridotte rispetto alla vita che la natura aveva immaginato per loro. Non sono simboli, semmai possono costituire un trasfert perché a noi, che siamo liberi e usiamo così male la nostra libertà, sia possibile affidare ai loro occhi, nel tentativo di liberarcene, il nostro disagio, la nostra sofferenza, il dolore dell’abbandono, la sensazione di essere malati o perfino morti, la nostalgia di una vita diversa e anche la semplice malinconia.
Erede della eccellenza pittorica trasmessa dai grandi maestri olandesi, abili ritrattisti, Dumas sceglie uno stile classico in cui l’animale è in posa, nella sua solitudine ieratica, nel centro dello spazio artificiale della fotografia: il genere del ritratto è l’unico che le consente di far emergere il carattere degli animali, che le preme rappresentare.
Una perentoria luce olandese è puntata sul soggetto, come in una scenografia teatrale, e non importa che Dumas abbia lavorato a Palermo o negli USA, dove la luce è diversa: ciò che conta è l’uso ‘olandese’ della luce, che predilige un’area della scena o perfino un dettaglio. Ottiene un risultato a tratti tridimensionale, con suggestioni di scultura, soprattutto se decide di sottolineare la forte muscolatura di un cavallo da lavoro, o la magrezza di un cane-barbone.
Adottando lo spirito e i metodi dei pittori del XV secolo, che dipingevano tenendo il cavalletto a distanza ravvicinata al soggetto, Charlotte fotografa senza telescopio, anche quando deve ritrarre tigri o lupi allo stato brado: non teme, perché ha saputo creare una relazione, e gli animali lo comprendono.
Fotografa da vicino, sentendo il respiro che accompagna lo sguardo, dopo aver studiato la posa con una Polaroid, quasi fosse il quaderno degli schizzi o il disegno preparatorio che consente di collocare il soggetto nel punto prescelto della tela, di decidere la posa più adatta al sentimento che intende sottolineare. Sperimenta la vicinanza, il legame generato da tanti mesi insieme, sperimenta il turbamento nel vedere gli animali così ‘umani’, incapaci solo di parlare.
Realismo che non teme di mostrare ciò che non è ‘bello’ secondo i criteri canonizzati, luce analitica, forti chiaroscuri, indugio sui dettagli, la scelta di porre, spesso, il soggetto su un fondo scurissimo: tutto rimanda alla scuola olandese in cui eccelse la ritrattistica, amata dalla borghesia commerciale che fece fiorire il genere per le mutate esigenze sociali, che imponevano che un commerciante di successo e sua moglie possedessero un ritratto come testimonianza della solida ricchezza. Dumas però non intende ritrarre regalità e splendore, non è interessata a selezionare gli esemplari migliori: ferma nello scatto la sofferenza, la fatica, l’abbandono, perfino la fame, perché questa è la condizione reale degli animali che ha voluto incontrare.
Una sola differenza rispetto ai maestri, ovvia se si considera il mezzo espressivo adottato: le opere sono il più delle volte proposte con un doppio formato, con una tiratura molto limitata: non sono per tutti quegli occhi, la gamba malata e bendata, il degrado di Palermo a cui i cani si sono adattati.
Isabella Colonna Preti